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Quei “no” dei giudici ai pm: storia (breve) di chi ha deciso di dire stop al copia e incolla

Trovare un precedente è difficile. Di giudici che abbiano detto no ai magistrati che richiedevano misure cautelari, negli anni, se ne sono visti pochi o, comunque, in numero decisamente inferiore a quelli che, invece, spesso si sono limitati a fare copia e incolla delle richieste loro sottoposte, lasciando il compito di valutare le esigenze cautelari ad altri. E forse è proprio per questo che la decisione della giudice Donatella Banci Buonamici appare tanto clamorosa, nonostante si fondi su una scrupolosa analisi degli elementi allo stato raccolti dalla pubblica accusa. Una decisione che, ovviamente, non certifica l’innocenza di nessuno, ma ribadisce un principio: il carcere è e deve essere l’extrema ratio.

Nell’ordinanza del gip di Verbania si parte da un presupposto: «Il fermo è stato eseguito fuori dai casi previsti dalla legge». E ciò in quanto «difettava il pericolo di fuga», che oltre che essere concreto deve essere anche attuale. Ma sul punto, nonostante la richiesta di far rimanere in carcere i tre indagati, «sono gli stessi pm che hanno operato il fermo a non indicare alcun elemento dal quale sia possibile evincere il pericolo di allontanamento dei tre indagati». Per la procura tutto si racchiude «nell’eccezionale clamore», nonché nella «elevatissima sanzione detentiva» che conseguirebbe all’eventuale accertamento delle responsabilità. Ma per il giudice il tutto appare «suggestivo» e «assolutamente non conferente», al punto da definire «di palese evidenza la totale irrilevanza» di tale condizione.Anzi: la confessione del principale indagato, Gabriele Tadini, e la disponibilità immediata degli altri due, Enrico Perocchio e Luigi Nerini, a riferire su quanto di loro conoscenza dimostrano, semmai, il contrario: quel pericolo di fuga non c’è e non è mai esistito. Tutto ciò che c’è a carico di questi ultimi, secondo il gip, è niente più che «suggestive supposizioni». E al momento della richiesta, «il già scarno quadro indiziario è stato ancor più indebolito», anche perché nessun vantaggio – men che meno economico – sarebbe venuto ai due dalla complicità nel lasciare i ceppi inseriti nel sistema frenante.

A voler cercare qualche precedente, bisogna tornare a luglio del 2019, quando il gip di Agrigento Antonella Vella ha respinto la richiesta di convalida dell’arresto e la richiesta di applicazione della misura cautelare del divieto di dimora a carico di Carola Rackete, capitano della Sea Watch, rimasta quattro giorni ai domiciliari dopo l’attracco rocambolesco al porto di Lampedusa per far scendere a terra i migranti portati in salvo nel Mediterraneo. Secondo il giudice, Rackete non aveva commesso alcun reato, rispettando invece l’obbligo di legge di soccorrere persone in pericolo, adempiendo ad un dovere di soccorso che «non si esaurisce nella mera presa a bordo dei naufraghi, ma nella loro conduzione fino al più volte citato porto sicuro».

Fortemente critica era anche stata la posizione del gip di Locri, Domenico Di Croce, che aveva respinto la richiesta di arresto nei confronti dell’ex sindaco di Riace, Domenico Lucano, accusato di associazione a delinquere, truffa, concussione e altro. Lucano finì ai domiciliari, poi revocati, ma dopo la scrematura del gip era rimasta ben poca cosa delle accuse contestate dalla procura. Nessun fondamento, affermava il gip in circa 130 pagine, alla base delle accuse di associazione a delinquere finalizzata, a vario titolo, alla truffa, alla concussione e alla malversazione, accuse che per gli uffici giudiziari guidati da Luigi D’Alessio, invece, sono rimaste in piedi. E laddove il reato c’era stato, secondo il giudice, era accaduto per fini umanitari. «Il diffuso malcostume emerso nel corso delle indagini non si è tradotto in alcuna delle ipotesi delittuose delineate dagli inquirenti», scriveva il giudice. A Torino, dopo la manifestazione di protesta per le restrizioni anti-Covid, il gip ha deciso di non convalidare i fermi respingendo l’accusa, nei confronti di 24 persone, di devastazione e saccheggio, ritenendo che il reato da configurare fosse quello di furto aggravato. Per il giudice, infatti, i furti non sarebbero stati collegati agli scontri di piazza, contestando anche la tempistica del fermo: quattro mesi dopo i fatti.

Diversi i casi di indagini per stupro per i quali i presunti colpevoli, dapprima fermati, sono stati rimessi in libertà per mancanza di indizi, anche in virtù della scivolosità del reato, che spesso viene contestato sulla base della testimonianza della sola vittima. Ma trovare esempi è cosa assai difficile. Mentre appare più semplice trovare prove delle ordinanze “copia-incolla”, autorizzate, almeno in parte, anche dalla Cassazione. Secondo gli ermellini, infatti, è da annullare il provvedimento nel caso in cui la motivazione sia assente oppure non contenga una valutazione autonoma delle richieste. Rimane, dunque, la necessità dell’autonoma valutazione delle esigenze cautelari e dei gravi indizi di colpevolezza da parte del giudice, che può essere accettata anche se avviene con il sistema del “copia e incolla”, laddove accoglie le richieste del pm solo per alcune imputazioni oppure solo per alcuni indagati. E ciò perché «il parziale diniego opposto dal giudice o la diversa graduazione delle misure, costituiscono di per sé indice di una valutazione critica e non meramente adesiva, della richiesta cautelare, nell’intero complesso delle sue articolazioni interne». Cosa che non è avvenuta, dunque, nel caso delle 10 persone accusate di avere realizzato falsi documenti per favorire migranti clandestini a Catania.

«L’esame comparato della richiesta di misura del pm e dell’ordinanza» ha «consentito di apprezzare come il primo giudice, in punto di valutazione della gravità indiziaria, si sia limitato ad operare un “copia e incolla”» della richiesta della Procura, aderendo in maniera «acritica e apodittica» alla sua tesi. Per questo motivo il Tribunale del riesame di Catania aveva annullato l’ordinanza del gip. Così come era accaduto nell’operazione “San Bartolomeo”: il tribunale del Riesame ha annullato l’ordinanza emessa dal Gip del tribunale di Roma per “vizio di forma”, avendo «copiato» le motivazioni del sostituto procuratore invece di esprimere una propria valutazione. Un vizio che, stando alle statistiche, appartiene a tanti

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