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Tre personaggi in cerca di Berlino e delle sue tracce

Ingeborg Bachmann, scrittrice austriaca che visse nella città fra il 1963 e il 1965, compare in forma di fantasma, l’io narrante di questa guida, Ilaria Gaspari, e un’amica dei tempi universitari, ospite e traduttrice nel viaggio

“Forse non ci sono giorni della nostra adolescenza vissuti con altrettanta pienezza di quelli che abbiamo creduto di trascorrere senza averli vissuti, quelli passati in compagnia del libro prediletto”. È proprio vero quel che Proust andava annotando nel suo libretto dedicato al piacere di leggere, ed è ancora più vero quando quelle lunghe ore di immersione in un libro amato le abbiamo trascorse da ragazzini nella stagione estiva. Da pochi giorni è iniziato agosto e con qualche difficoltà ferroviaria sono arrivata nella casa dei miei genitori, una piccola baita fra le Alpi carniche e le Dolomiti. La casa delle interminabili estati a leggere della mia infanzia. Nella camera con l’abbaino che dà sul Monte Coglians, quella dove continuo a tornare a dormire quando sono qui, ho con me una valigia fatta di fretta e un libricino con la copertina carta da zucchero.

Il titolo è “A Berlino. Con Ingeborg Bachmann nella città divisa” e l’autrice è Ilaria Gaspari, filosofa, scrittrice e militante proustiana. A una prima occhiata pare una guida e oltretutto fa parte di una collana, lanciata dall’editore Giulio Perrone una decina d’anni fa ma negli ultimi tempi irrobustita dalla pubblicazione di un titolo ogni paio di mesi, che conferma il sospetto visto il nome che porta: “Passaggi di dogana”. Tentativo editoriale riuscito di accompagnare il turista letterato alla scoperta di città vissute da scrittori, cineasti, musicisti, artisti. Guide all’immaginario da percorrersi in un cammino fra decenni, storie e architetture.

Ma perché voglio istituire un’analogia fra una guida di Berlino scritta sulle tracce di Ingeborg Bachmann, le delizie estive dei giovani lettori e, quel che è peggio, i fatti miei? Iniziamo dal peggio, dalla ragione di questi ultimi. “A Berlino” dichiara subito i suoi personaggi. Sono tre. Ingeborg Bachmann, impareggiabile scrittrice austriaca che visse a Berlino fra il 1963 e il 1965 e che compare in forma di fantasma impegnato a fumare e seguire l’io narrante di questa guida, Gaspari stessa, che ne evoca la biografia con l’aiuto di un’amica dei tempi universitari, ospite e traduttrice nel viaggio. Sono tre, eppure la voce della narratrice stenta a rimanere vincolata al ruolo di maschera.

È proprio l’autrice che pare invadere tutto lo spazio narrativo, lasciando zone esigue all’amica e appena un poco più ampie al fantasma della scrittrice. Almeno così pensavo all’inizio del libro, che stende una sorta di preparazione al viaggio berlinese in forma di caccia alle coincidenze fra la biografia di Bachmann e quella dell’autrice. Cosa ci importa che entrambe siano state studiose di filosofia, che entrambe abbiano eletto Roma e Berlino a luoghi domestici pur senza avere alcun legame familiare in quelle due città, cosa che nella vita di tutti i giorni entrambe amassero leggere Proust?

Bisogna arrivare al capitolo “Tempo dilazionato” per capirlo. “Quella che ho conosciuto io, fra ondate di turisti e di studenti perdigiorno, nell’abbaglio cosmopolita della stagione Erasmus, non era la Berlino degli anni della caduta del Muro, né quella sotterranea, anarchica, indecifrabile del decennio immediatamente successivo. Era una rassicurante Berlino anni Duemiladieci; rassicurante, intendo, per noi, ragazze e ragazzi cresciuti nella bambagia, sorpresi, ma fino a un certo punto, da una crisi economica troppo blanda per minacciarci davvero, troppo persistente per non rammollire i nostri sogni di futuro (…) Ma Berlino mi mostrò pure qualcosa di scomposto e di selvaggio. (…) E c’è un silenzio, allora, la notte; un silenzio e un buio selvatico, l’ombra di una volpe che vive in città e si è scavata una tana fra i cespugli del parco, dove qualcuno ha dimenticato una lattina di birra; e nelle pieghe fra il silenzio e il richiamo di un rapace alligna un ricordo antico, di altre notti, di un altro mondo, che a Berlino, stranamente, pare dissolversi in un’idea possibile e insieme già sbiadita. Selvaggi sono i prati da cui emergono rovine di stazioni distrutte; selvaggia la desolazione dei vecchi che raccolgono vuoti di bottiglie – le miriadi di bottiglie scolate dai giovani gaudenti, o da altri vecchi come loro, chi lo sa? – per riscuotere i centesimi di cauzione in qualche deposito di supermercato. Selvaggia è la solitudine della città, della Storia che pare fossilizzata appena sotto la superficie ripulita della metropoli dinamica, degli appartamenti con grandi bovindi e parquet, dei mercati in cui si compra cibo sano, dell’efficienza gentile di giovani mamme e giovani papà con le loro biciclette e i carrettini a rimorchio, e dentro bambini piccoli elettrizzati dalla velocità”.

Ecco che allora quell’io narrante onnipresente e sempre in caccia di coincidenze si rivela per quello che è: sono gli occhi di una guida impossibile da rintracciare su una mappa geografica, occhi che devono contenere le Berlino di almeno tre esistenze, di diversi anni e diverse torme d’individui, di abitudini passate e presagi di costumi che verranno, di indoli perdute e caratteri eterni. E Gaspari usa tutto quel che può per farsi così densa. Usa la sua filosofia per spiegare grazie a Epicuro come si tengano insieme eventualità e accidenti, usa la sua biografia per svelare gli anfratti più timidi delle vicende pubbliche del suo fantasma, usa la sua cultura per moltiplicare le possibilità di raccontare la storia di Berlino, e per divagare quanto basta per richiamarne le molteplici vicende.

E usa la sua scrittura, raffinata. Strumento che l’autrice riesce a brandire piegandolo al compito di evocare quel che non c’è più e quel che non c’è ancora per il lettore. Che uscirà da questa breve passeggiata berlinese con la voglia di rivivere i pomeriggi a leggere di quando s’era bambini, tanti sono gli spettri che si fanno vicini in questo meraviglioso libretto capace di rendere temerari anche i più restii a “cercare le tracce di un passato a cui dare il senso che l’oggi, ai nostri occhi, non ha”. E capace di rendere ogni fatterello della vita quotidiana, prosaica e ingombrante, un segno non ancora decifrato. Persino le mie Dolomiti agostane, che si mischiano adesso alla prima volta che qui lessi la Bachmann e scoprii l’autrice più grande del secolo che allora stava appena finendo.

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