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Tutto quello che c’è da sapere su Robert Polidori, il fotografo delle meraviglie

Oltre una decina d’anni fa incontrai Polidori a Milano, in occasione di una mostra personale alla Fondazione Sozzani (ai tempi Galleria Sozzani). Con i capelli castani pettinati in un ciuffo ordinato e la giacca chiara, il suo aspetto era più quello di un intellettuale che di un artista; e anche le sue ossessioni intellettuali sembravano prevalere su quelle estetiche. La sua epifania, mi raccontò, l’ebbe leggendo L’arte della memoria di Frances A. Yates, un libro dedicato ad antichi sistemi mnemonici attraverso le immagini. Fu quello a spingerlo verso la fotografia. In precedenza si era formato come filmmaker sperimentale realizzando, tra gli anni Sessanta e Settanta, sette cortometraggi e lavorando con Jonas Mekas per la Anthology Film Archives. Il corpus di fotografie che esponeva allora a Milano era una selezione tratta dall’opera di una vita, realizzata nell’arco di un trentennio al Castello di Versailles, dove tornava ogni volta che la memoria lo spingeva a cercare altri dettagli e nuove sfaccettature. 

Robert Polidori, La Galerie Basse, Chateau de Versailles, 1986 – Courtesy of Camera Work.

Mentre un giorno si trovava a New York, invitato dalla nota libreria Strand per parlare di quel lavoro – che a quel punto aveva raccolto in quattro volumi dal titolo Parcours Muséologique Revisité (Steidl) –, nel corso di un’intima conferenza rivelò di aver odiato il suo primo libro, dedicato, appunto, a Versailles, pubblicato nel 1991 da un editore francese. Le cose erano andate così:

“Vorrei fare un libro sul revisionismo storico visto attraverso il restauro di un museo” aveva annunciato il fotografo al suo primo editore, il quale deciso gli aveva risposto: “Un libro così non venderà mai. Ma ti farò il più bel coffee table book su Versailles” 

“Che cosa c’entra un coffee table book con questo?” – aveva pensato allora Polidori. “E inoltre, io non bevo mai caffè dove stanno i libri…”. 

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